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    Home » Ricerca del Lavoro » Nuove professioni: il CHO, ovvero il manager della felicità
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    Nuove professioni: il CHO, ovvero il manager della felicità

    2 Marzo 2018
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    Gli americani lo definiscono Chief Happiness Officer, rientra tra le figure aziendali che si occupano delle risorse umane, ovvero dei dipendenti. E’ un’evoluzione dell’HR manager tradizionale e in particolare, come il nome suggerisce, si occupa della loro soddisfazione e del loro benessere, poiché è ormai noto che dipendenti più felici sono dipendenti più motivati e produttivi. Ecco come si diventa manager della felicità.

    E’ un bellissimo titolo, che potrebbe richiamare alla mente realtà fiabesche e un ruolo da semi-dio, eppure questa figura professionale è piuttosto concreta. Cosa fa dunque un Chief Happiness Officer e come lo si diventa?

    Lo scopo del Chief Happiness Officer è rendere il posto di lavoro un luogo felice, dove le persone si sentono sempre a proprio agio, apprezzate, comprese, valorizzate, motivate; ma non solo, le dinamiche stesse tra colleghi devono essere serene, condurre a una produttiva collaborazione. In poche parole, in ufficio dovrebbe regnare una buona atmosfera ed essere un luogo in cui ogni mattina una persona è felice di andare. Per un’azienda, avere collaboratori felici significa trattenere i propri talenti (fatto oggigiorno quanto mai importante), renderli più coinvolti nella missione aziendale, in sintesi il massimo che un’azienda possa aspettarsi da un dipendente è che egli ci tenga all’azienda stessa come se fosse sua, che sia veramente soddisfatto e orgoglioso di lavorarci.

    Un compito arduo. Gli uffici spesso sono luoghi tristi e noiosi già nella loro struttura: scrivanie anonime, tutte uguali, poco spazio per la personalizzazione, poco colore. Negli uffici, specialmente quando si tratta di aziende di certe dimensioni, le tensioni sono frequenti: competitività tra colleghi che produce divisioni e poca collaborazione; scadenze e ritmi di lavoro pressanti; superiori con cui è difficile comunicare; rigidità di ruoli e gerarchie; poche occasioni di lavoro in team destrutturate e creative.

    Da questa descrizione è già possibile verificare che i compiti di cui si può fare carico di Chief Happiness Officer sono concreti e quanto mai vari, nel senso che variano da azienda ad azienda. Tuttavia, vi sono indicazioni che possono essere generalizzate.

    Ecco una mini-guida in 8 punti dei compiti del manager della felicità realizzato da Hppy, una community statunitense del settore Risorse Umane, quindi indirizzata agli HR manager.

     

    • Dare importanza ad ogni persona e trattarla con rispetto e gentilezza
      Suona come ovvio, ma un trattamento sbagliato è uno dei motivi più frequenti per cui un dipendente lascia un’azienda. I dipendenti meritano di essere trattati come se fossero i migliori clienti in termini di rispetto, vocabolario, azioni e promesse. Nulla autorizza un datore di lavoro a trattare sgarbatamente i propri dipendenti.  Il rispetto è una componente essenziale di un sano rapporto di lavoro, che il CHO non solo deve adottare come proprio comportamento ma assicurarsi che tutti i vari livelli manageriali adottino tra pari livello e verso il personale considerato, secondo le tradizionali (e un po’ obsolete) gerarchie aziendali, di livello inferiore. Nella dignità e rispetto, non esistono livelli.

     

    •  Garantire le basi. E’ chiaro che se i bisogni di base di un dipendente non sono coperti, tutto quello che si può fare per cercare di renderli felici non ha molto senso. Prima di tutto, quindi il CHO, deve assicurarsi che contratto di lavoro e trattamento economico siano quelli adeguati per il dipendente.

     

    • Dare ai dipendenti una voce. Le persone vogliono essere ascoltate, sempre, questo è il primo passo per farle sentire apprezzate. In azienda, hanno bisogno, e il CHO deve occuparsene, di canali appropriati, linee guida e un percorso di azione che assicuri una risposta ai loro bisogni e idee. Cioè, non basta, che si dica ai dipendenti ‘ti ascoltiamo’, bisogna farlo: che si tratti di una telefonata per chiedere come va un certo problema, o di un’e-mail di follow-up dopo un’incontro, o di un feedback sulla loro attività, devono sapere che qualcuno effettivamente li sta ascoltando. Un primo passo che il CHO dovrebbe fare per aprire un canale di ascolto con i dipendenti è proprio intervistare il personale e chiedere ‘cosa ti renderebbe più felice in ufficio? cosa vorresti che questa azienda ti offrisse? ti piace lavorare qui? come potremmo migliorare le condizioni di lavoro?’. Oltre e capire il livello di ‘felicità da cui si parte’, l’operazione permette al manager della felicità di stabilire un contatto più profondo con le persone, farle sentire importanti e coinvolte, magari ricevere suggerimenti davvero utili.

     

    • Assicurati che i valori aziendali siano conosciuti e apprezzati. I valori aziendali sono fondamentali: legano insieme l’ immagine esterna dell’azienda (il marchio) con quella interna (la cultura aziendale). Ma non è sufficiente averli su un pezzo di carta, o sul sito web. Bisogna costantemente renderli vivi e re-dichiararli, traducendoli in comportamenti, e assicurarsi che le persone conoscano tali valori e soprattutto apprezzino che c’è coerenza tra quanto l’azienda per la quale lavorano dichiara e quanto effettivamente realizza.

     

    • Offrire ai dipendenti la libertà. Il CHO dovrebbe fare in modo (e organizzare le cose) affinchè sia assicurato ai dipendenti di avere una certa flessibilità nella gestione del proprio tempo, dei propri orari, magari con formule di smart working, la libertà di personalizzare il loro spazio di lavoro e la libertà di proporre e eventualmente implementare le proprie idee. Tra le cose che molte aziende stanno adottando oggi (e che contribuisce anche a realizzare un ambiente piacevole di cui al punto 7) c’è la libertà di portare al lavoro il proprio animale domestico, solitamente il proprio cane, ovviamente fattibile se l’animale è docile e nessuno dei colleghi ha allergie o fobie.

     

    • Sostenere la crescita. Le persone devono sapere che possono crescere professionalmente in quell’azienda e che saranno aiutate in questo se si mettono in gioco con il proprio talento. Il CHO è quella persona che in qualsiasi fase della loro esperienza lavorativa le stimola a sfruttare i loro punti di forza e cogliere nuove opportunità; che crea e promuove nuove opportunità di crescita per trattenere i talenti.
    Una sede di Google
    • Incoraggiare un ambiente piacevole. Non si tratta  di trasformare il luogo di lavoro in un parco divertimenti, ma di creare occasioni per stimolare una comunicazione personale e di qualità tra colleghi. Anche una partita a freccette o a biliardino può aiutare e permette di fare una pausa e staccare dalle dinamiche di lavoro. In questa direzione va  anche una ristrutturazione, anche leggera, degli spazi di lavoro, che può consistere in una tinteggiatura che porti un po’ di colore e che crei spazi comuni davvero rilassanti. Su questo molto si può apprendere dall’organizzazione degli ambienti tipica di tanti co-working.

     

    • Incoraggiare un lavoro di squadra efficace. Un’azienda potrebbe aver reclutato i migliori talenti ma se non lavorano bene insieme non si raggiungeranno risultati. Pochissime persone sono naturalmente inclini a lavorare bene in squadra. Per cui,  è su questo punto che un manager delle risorse umane dovrebbe intensificare i propri sforzi e offrire preparazione, esercizi di teambuilding e supporto costante. Organizzando, giornate e momenti veri e propri di giochi di squadra, completamente diversi da quanto i team fanno normalmente, per esempio sfide di cucina, tornei di calcetto, e …avanti tutta con la creatività!

    Indice degli argomenti

    • Come si diventa CHO, o manager della felicità
    • Attitudini, l’empatia fa la differenza

    Come si diventa CHO, o manager della felicità

    Il manager della felicità è in fondo un manager delle risorse umane, evoluto secondo i più moderni principi di organizzazione e psicologia aziendale e gestione delle community. E’ una professione in forte crescita.

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    Per intraprendere questa carriera non sempre il percorso è lineare (cioè da tale scuola/università a tale lavoro) ma si definisce cammin facendo in base a delle attitudini personali ed esperienze.

    Tuttavia, alcune indicazioni si possono dare.

    Il percorso più lineare è rappresentato dalla laurea triennale, in ambito organizzazione e gestione delle risorse umane, non diffusissima ma presente in diversi atenei italiani. Ma sono indicati anche lauree in vari modi affini all’argomento sotto vari aspetti, a partire da corsi di laurea tipo Psicologia, Scienze economico-aziendali; Giurisprudenza, Scienze della comunicazione; Management d’Impresa.

    Al corso di laurea posso affiancarsi o seguire specializzazioni, certificazioni, master, di cui c’è abbondante scelta, a seconda delle carenze che ognuno sente di avere rispetto a quelle che sono le funzioni del CHO e le sue attitudini di partenza.

    “Il percorso che io suggerirei per diventare HR Manager è quello di conseguire una laurea umanistica (triennale o magistrale, non fa la differenza) e poi frequentare un Master in Risorse Umane. – ci dice Katia Marino, Responsabile Risorse Umane e CHO di Digital360 Group – E’ il Master che diventa fondamentale perché permette di acquisire tutte le competenze che caratterizzano il ruolo. Dopo qualche anno di esperienza aziendale, si diventa professionisti di eccellenza conseguendo la certificazione di Coach. Tuttavia, l’essere al passo con l’evoluzione della società e delle Aziende impone all’HR Manager di mettersi nell’ottica della formazione continua investendo annualmente un tot di giornate in aula (per esempio per essere al passo coi tempi nel 2018 l’HR Manager non può non aver praticato la mindfulness o seguito un percorso di rebirthing). ”

    Attitudini, l’empatia fa la differenza

    La vera differenza, però, nel settore risorse umane, così come si è evoluto oggi (cioè meno volto ai soli aspetti burocratici, più rivolto al benessere del personale aziendale), lo fanno le attitudini personali.

    Naturalmente sono necessarie buone capacità organizzative e saper prendere decisioni, ma sopratutto facilità nei rapporti umani e ottime capacità di ascolto e comunicazione.

    In una parola, la dote probabilmente più richiesta per diventare un manager della felicità di alto livello è l’empatia, cioè quella capacità di comprendere lo stato d’animo altrui, una sensibilità che va al di là delle parole e che permette di instaurare un rapporto di fiducia e di comprensione con le altre persone.

    “E’ una professione stupenda – sottolinea Katia Marino – perché se da un lato non si finisce mai di imparare, dall’altro non si finisce mai di amare l’essere umano e di desiderare la sua felicità!”

     

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