L’Osservatorio “Giovani e Lavoro”, realizzato dall’Università di Pavia per Humangest, conferma la tendenza dei neolaureati a privilegiare esperienze di lavoro ibride, frutto della commistione di consulenza e contratti di lavoro subordinato
Le esigenze dei giovani neo laureati sono cambiate profondamente, lo sentiamo dire da tempo. La pandemia ha costretto un po’ tutti noi a ripensare le nostre vite per rifocalizzarci sull’essenziale, su ciò che è veramente importante. Il fenomeno della Great Resignation la dice lunga sul fatto che il mondo del lavoro non tornerà mai più a essere quello di prima e spinge molte aziende a rivedere completamente le proprie strategie di ingaggio e retention.
Neo laureati e lavoro. Il posto fisso? Non attira più
Una remunerazione adeguata e un ambiente sereno sono i principali fattori che spingono i neolaureati a scegliere di collaborare con un’azienda piuttosto che un’altra. Questi due elementi sono, infatti, sono quelli più importanti per ben 7 giovani su 10 quando si tratta di decidere tra più offerte di lavoro. Per contro, la tossicità delle relazioni all’interno dell’organizzazione e l’assenza di un ambiente stimolante e inclusivo sono i fattori che, sempre per 7 ragazzi su 10 in media, determinano la decisione di cambiare azienda.
I dati emergono dalle evidenze dell’Osservatorio “Giovani e Lavoro” realizzato dal CIRSIS (Centro Interdipartimentale di Ricerca sui Sistemi di Istruzione Superiore) dell’Università di Pavia per conto di Humangest, l’Agenzia per il lavoro del gruppo SGB Humangest. Il report, il cui sottotitolo è “Il valore della fiducia – Laureati e laureandi alle prese con la sfida del lavoro”, mira a comprendere come sono cambiate le aspettative dei ragazzi che si affacciano oggi al mondo del lavoro. La ricerca quali-quantitativa, condotta su un campione di 507 laureandi e 521 laureati, ha confermato quella che ormai appare una tendenza consolidata. Il posto fisso di zaloniana memoria non è più in cima ai pensieri dei neo laureati che, invece, danno più importanza ad altri aspetti della loro esperienza lavorativa. Il report evidenzia, infatti come il tipo di contratto sia rilevante ormai solo per il 10,5% dei laureati e il 5,2% dei laureandi.
Il futuro dei giovani laureati? Per molti non è in azienda
I risultati dell’Osservatorio sono stati presentati nel corso di una tavola rotonda, che ha visto confrontarsi sul tema un pool di HR manager ed esponenti del mondo accademico. «Stiamo assistendo a cambiamenti culturali e generazionali incredibili – sottolinea Gabriele Belsito, HR Director di Autogrill –. Una ricerca condotta di recente su un campione di laureati di Harward conferma che molti di questi ragazzi vedono il proprio futuro non in azienda ma, piuttosto, in una startup, perché spesso non si identificano nei meccanismi organizzativi e nei valori dell’azienda. La verità è che i giovani di oggi sono mossi da sentimenti molto più forti rispetto alle generazioni che li hanno preceduti. Sono molto più ambiziosi e si pongono obiettivi sfidanti. Le organizzazioni fanno di tutto per ingaggiare questi ragazzi ma troppo spesso non sono in grado di trattenerli, di accogliere le idee che propongono e permetterli di realizzare le loro ambizioni in azienda». Lo sbocco più naturale per loro, quindi, è spesso la consulenza.
Le soft skill? Sono sempre più importanti
Esiste, in pratica, uno scollamento tra le aspettative dei giovani che si affacciano al mondo del lavoro e le aziende alla ricerca di professionisti da inserire in organico. Ma come si può colmare questo divario? La ricetta è forse rimettere in discussione i pilastri stessi delle risorse umane, prendere atto del fatto che il mondo è cambiato e che la pandemia ha scardinato completamente il sistema dei valori per i lavoratori più giovani. Circa 5 giovani su 10 (il 46,8% dei laureandi e il 48,7% dei laureati) ritiene molto importante avere del tempo da dedicare alla famiglia, agli hobby e agli interessi al di fuori del lavoro. «I ragazzi – commenta Flavio Ceravolo, Professore di Sociologia e Metodi di ricerca presso l’Università di Pavia – ci hanno consegnato un mondo del lavoro diverso e ci hanno fatto capire che vogliono esistere in tutte le sfere della loro vita. Sono disposti a rischiare più dei loro padri per ottenere il giusto equilibrio tra lavoro e vita privata, e cambiano spesso azienda. Si aspettano che il datore di lavoro abbia fiducia nelle loro capacità e sia in grado di offrirgli quelle esperienze che per loro rappresentano il vero fulcro della vita lavorativa: la formazione, la possibilità di lavorare in sedi estere o in Smart Working per buona parte del proprio tempo, per esempio. Questi elementi contano ben più del tipo di contratto o dell’entità dello stipendio nella scelta se rimanere o meno in un’azienda».
La dimensione del lavoro per i neo laureati è sempre più olistica
«Questo report – sottolinea Angelino Alfano, Senior Advisor di SGB Humangest Holding – è il racconto di una generazione nuova che si affaccia al mondo del lavoro, che non vive la precarietà come una declinazione maligna del concetto di flessibilità ma, anzi, ritiene la libertà di determinarsi un valore. Questi ragazzi hanno una propensione al cambiamento che le generazioni precedenti non avevano, e le organizzazioni devono tenerne conto. A riprova di quanto questo sia importante, c’è il fatto che le aziende che dominano il mercato oggi sono quelle che non impongono al collaboratore una frattura, una spaccatura tra la vita professionale e la vita privata, ma gli offrono uno scopo da servire più alto e un welfare più solido. Si diffonde un concetto sempre più olistico di lavoro, che si estende fino a diventare un tutt’uno con gli altri aspetti della vita come la famiglia o il tempo libero. Questo vale a maggior ragione se l’azienda dimostra di perseguire un purpose, quindi un obiettivo di business, che va al di là del puro profitto. Se nel realizzare la propria attività promuove anche finalità di inclusione o tutela ambientale, per esempio, che per i ragazzi di oggi sono sempre più importanti».
L’autonomia? Un valore da preservare
Emiliano Maria Cappuccitti, People & Culture Director di Coca-Cola HBC Italia è uno dei massimi esperti di lavoro nel nostro Paese. Prima della pandemia ha anche scritto un libro “Oggi mi laureo, domani che faccio?” che rappresenta un vademecum, una guida tecnica per i giovani che si affacciano al mondo del lavoro. Da ottimo conoscitore della materia, mette l’accento sull’importanza per i ragazzi di mettere in evidenza sin dal primo colloquio le proprie attitudini più che le certificazioni o i titoli. «Le soft skill, il modo di porsi, la capacità di trascinare un gruppo, ma anche il mindset e la cultura generale sono fattori molto più importanti degli skill tecnici, che il giovane si costruisce con l’esperienza. Noi, per esempio, in Coca-Cola abbiamo creato delle academy che offrono una formazione specifica sugli ambiti della Supply Chain e del finance». Una formazione che è ormai saldamente in cima alla lista degli elementi sui quali i neo laureati valutano le proposte di lavoro.
Il lavoro del futuro? Startupper o consulente
L’Osservatorio evidenzia il ruolo crescente dell’autodeterminazione nel definire i percorsi professionali dei giovani. Un laureato su 7 vorrebbe trasformare il proprio contratto di lavoro da dipendente ad autonomo o consulenziale, mentre il 64,1% dei lavoratori autonomi si dice soddisfatto della propria condizione e non la vorrebbe cambiare. «Le aziende – prosegue Alfano – devono imparare a relazionarsi con delle esigenze che sono profondamente cambiate rispetto a qualche anno fa. Oggi c’è tutto un apparato di aspettative da parte dei neo laureati che spesso viene fuori già in fase di colloquio e sul quale le aziende sono chiamate a interrogarsi se vogliono ingaggiare le nuove leve ma soprattutto a trattenerle in organico».
Questo può voler dire rivedere completamente i principi alla base del rapporto di lavoro, improntandoli a logiche del tutto nuove. «Le aziende – conclude Ceravolo – devono essere in grado di sostenere e accompagnare i ragazzi in questi percorsi di autonomia, anzi di vera e propria imprenditorialità. Come? Progettando nuove forme di ingaggio ibride, per esempio, che prevedono la sottoscrizione di contratti più simili a una partnership che non a un rapporto di lavoro. Anche la componente retributiva è sempre più flessibile e spesso prevede una quota fissa e una quota variabile, e questo ai giovani sta bene. L’autodeterminazione e l’ambizione devono però essere supportate da un coaching, un mentoring e programmi di formazione e crescita adeguati se si vuole riuscire a intercettare il potenziale di questi ragazzi, che se vedono riconosciuto il proprio valore spesso sono disposti anche a dare molto di più di quanto non prevede il mansionario aziendale».