Cosa significa lavorare nell’azienda di famiglia e farsi portavoce di valori che si tramandano da più di cento anni, trovando allo stesso tempo un modo innovativo di comunicarli alle nuove generazioni. Lo racconta Alessandro Marinella
Paola Capoferro
Responsabile Editoriale
«Per cosa vorrei essere ricordato domani? Per aver portato E. Marinella a raggiungere vette così alte da competere con i più grandi brand della moda. Rispettando però due prerogative: produzione a Napoli e l’essere un’azienda a conduzione familiare».
Ecco a cosa aspira Alessandro Marinella. 28 anni, nato e cresciuto a Napoli, insieme al papà Maurizio oggi porta avanti l’azienda sartoriale di famiglia, specializzata nella realizzazione di cravatte e articoli di abbigliamento di lusso, fondata nel 1914 da Eugenio Marinella a Riviera di Chiaia.
Lo abbiamo intervistato per farci raccontare che cosa vuol dire lavorare nell’azienda di famiglia, il suo percorso e di cosa si occupa oggi.
Quali sono i miti da sfatare quando si lavora in casa, se ce ne sono?
«Parto con la cosa più importante. Secondo me non ci sono percorsi scritti, non ci sono strade obbligate. E questo vale anche quando si tratta di imprese di famiglia. Bisogna sempre e comunque fare quello in cui si crede e seguire le proprie attitudini. Non sarò io domani a imporre a mio figlio di entrare in azienda se non sarà quello che vuole fare. Se oggi sono in E. Marinella è perché sono io il primo a voler portare avanti la sua filosofia e la sua storia, e lo faccio con passione e attenzione ai valori della tradizione, affiancando giorno per giorno mio padre.
Ma c’è di più: non c’è nulla di dovuto. Se vuoi qualcosa te lo devi conquistare. Ed è questo quello che racconta il mio percorso. Mi sono laureato in Economia Aziendale all’Università degli Studi di Napoli “Federico II”, con una tesi in lingua inglese che trattava gli aspetti fondamentali dell’internazionalizzazione delle PMI, con un focus particolare sul caso di studio E. Marinella.
Nella stessa università, nel 2020, ho conseguito il master in business Innovation e, nel 2021, all’IPE/IESE Business School di Barcellona il Master in Gestione dell’impresa. In azienda sono entrato ufficialmente nel 2017, ma da un ingresso “laterale”: ho cominciato infatti con un’esperienza di sei mesi in uno dei nostri store a Londra. Questo passaggio ha avuto grande valore nel mio percorso formativo».
Il bello e il brutto di lavorare in un’azienda di famiglia?
«La cosa più bella è che si ha la possibilità di sbagliare. Non si è valutati unicamente sui risultati raggiunti e questo è un lusso. Anche perché consente di mettersi in gioco e avere la possibilità di esprimersi al massimo, considerando che in pratica non si rischia.
La cosa più brutta, se così la vogliamo connotare, è doversi confrontare costantemente con chi ti ha preceduto, con le altre generazioni. Nel mio caso mio padre, in primis: è stato ed è un pilastro sia a livello territoriale che aziendale, e ha instaurato un rapporto magnifico e forte con tutte le persone dell’azienda. Da un lato questo vuol dire avere un esempio da cui trarre ispirazione, dall’altro però in qualche modo complica la mia strada in azienda perché il paragone è inevitabile.
Un altro aspetto, poi, caratteristico del nostro mondo è che un po’ si modifica il rapporto interpersonale con i familiari…e non nascondo che fuori dall’azienda capita anche a tavola o a casa di parlare di lavoro».
Di cosa ti occupi oggi in E. Marinella? Quali sono stati i tuoi primi passi?
«Oggi in azienda ho la responsabilità di conoscere e migliorare tutti gli aspetti organizzativi e operativi, con particolare attenzione ai progetti esteri, ecosostenibili e a quelli digitali.
Quando sono entrato avevo tanta voglia di fare, di ritagliarmi il mio pezzettino. E. Marinella il prossimo anno compirà 110 anni. È un’azienda che storicamente ha basato il suo business plan sul rapporto con i clienti: un rapporto diretto e umano, che punta a far trasparire quello in cui crediamo, il valore dell’artigianalità e del lavoro delle mani.
Nelle pieghe di questo tessuto ho cercato di calare parte di quello che avevo studiato e parte di quelle novità che potevo portare in quanto appartenente alla generazione dei Millennials. Ho quindi lavorato su diversi asset: l’approvvigionamento della merce, la ricerca di nuovi fornitori, lo svecchiamento della comunicazione, che quando sono entrato in azienda era solo fisica, utilizzavamo solo giornali, cartellonistica e cartoline. E poi, non avevamo pagine social, una mailing list, non c’era un sito e non usavamo i tool di Google (Ads, SEO, SEM).
Nel corso del tempo i risultati mi hanno dato ragione.
E nel 2020 c’è stato il punto di svolta: quando tutti i negozi erano chiusi, le persone in cassa integrazione, insieme a un piccolo team abbiamo lanciato il nostro sito eCommerce. In due anni e mezzo ha raggiunto circa il 25% del fatturato. Un ottimo risultato che mi ha dato più libertà di parola e movimento anche su altri ambiti».
Potremmo dire che questo è il progetto di cui sei più orgoglioso?
«Sì, perché dietro c’è molto di più di quello che si vede: non si tratta solo di un sito che consente alle persone di acquistare degli articoli. Se fosse solo questo ci saremmo potuti rivolgere anche a un’agenzia esperta di eCommerce.
Si è trattato invece di un progetto che ho seguito da vicino, un progetto di business che aveva due priorità: un ROI immediato, da un lato, e che rispecchiasse pienamente i valori e il mondo Marinella, raccontando anche la nostra storia, dall’altro.
Per questo è stato curato ogni dettaglio. Abbiamo disegnato non solo la struttura fisica del sito ma anche il tipo di esperienza che vivono i nostri clienti, a partire dal processo che si innesca quando si genera l’ordine, e i passaggi che ne conseguono in cascata: dalla verifica delle giacenze alla preparazione del packaging, all’ingaggio degli spedizionieri, in base alle aree geografiche in cui operano, fino alla consegna garantita entro 24/48 ore.
Tutto questo è stato possibile perché ci abbiamo creduto, lo abbiamo voluto e perché ci abbiamo investito: dietro il nostro eCommerce c’è infatti un team dedicato di 15 persone under 30.
Ma c’è anche un altro progetto a cui tengo particolarmente: il lancio di un laboratorio di lavorazione del cotone per portare sul mercato camicie a marchio E. Marinella. L’obiettivo è spingere su questa categoria merceologica in quanto molto affine alla cravatta. Non solo, è anche un po’ un ritorno alle origini. Nel 1914, infatti, siamo nati come importatori di articoli inglesi a Napoli. A quei tempi non esisteva la globalizzazione e quasi non esisteva la cravatta. Noi importavamo camicie, cappotti, cappelli, profumi. Successivamente, durante la Seconda guerra mondiale, il rapporto tra Italia e Inghilterra si deteriorò e nacque il nostro primo laboratorio, che inizialmente era di camicie, appunto. Poi arrivarono le sarte da Parigi specializzate nella lavorazione della seta, ed è così che poi ha preso piede il mercato delle cravatte».
Che cosa consiglieresti a chi vuole entrare a lavorare in un’azienda di famiglia?
«Consiglio di avere pazienza, e all’inizio di occuparsi di piccoli progetti, anche semplici che possano essere valutabili oggettivamente, che diano risultati tangibili. In pratica, suggerisco di ritagliarsi il proprio spazio, lentamente, ma costruendo pilasti ben saldi».
E a un ragazzo che invece si affaccia nel mondo del lavoro e vuole diventare un imprenditore?
«Direi che la prima cosa da fare è un po’ scardinare l’immagine che noi Millennials abbiamo degli imprenditori: lo startupper che con l’idea geniale si è fatto strada nel mondo, che guadagna miliardi di euro, e che gestisce a distanza un numero più o meno consistente di persone.
Questo può succedere, ma è un po’ come vincere al superenalotto.
L’obiettivo che invece è importante avere sia nel caso in cui si voglia creare qualcosa da zero sia quando si entra in azienda è rispondere a un bisogno. Le aziende di successo sono le aziende utili, che risolvono un’esigenza reale e che almeno se non creano nulla di nuovo fanno qualcosa che già esiste ma meglio».
Un’ultima battuta, che cosa diresti ad Alessandro di 5 anni fa e cosa diresti al te del futuro?