Parlare di cambiamento spesso spaventa, e metterlo in pratica ancora di più. Ma ci pensiamo a quante opportunità perderemmo se durante il viaggio verso la “nostra Itaca” non chiudessimo gli occhi e non abbandonassimo la bussola per seguire solo e soltanto l’istinto? No, questo non è l’incipit di un TEDTalk o di una qualche sessione motivazionale, è una riflessione a freddo dopo la lunga chiacchierata che abbiamo fatto con Valentina Marini, LinkedIn Top Voice Lavoro, HR Senior Consultant oltre che blogger e autrice di libri.
Conosciamo Valentina Marini
Lasciamo che sia proprio lei ha raccontarsi e a ripercorrere la sua carriera, così che possa essere d’ispirazione per tutte le giovani ragazze e i ragazzi che oggi, per un motivo o per un altro, si trovano a compiere delle scelte, molte delle quali implicano un cambiamento.
Ci racconti la tua professione e il percorso di studi che hai alle spalle?
«Mi piace definirmi come una “consulente risorse umane anomala”, perché tanti anni fa, dopo essermi iscritta alla facoltà di Scienze della Formazione e aver conseguito la laurea magistrale in Scienze dell’Educazione degli Adulti e Formazione Continua, dove si studiano diverse materie legate al mondo delle risorse umane (in triennale ho studiato Scienze dell’Educazione), mi sono resa conto che mi appassionava anche molto il mondo del marketing e della comunicazione in generale.
La mia formazione non si è, però, fermata alla laurea. Negli anni ho seguito corsi internazionali che rilasciavano attestati e/o certificazioni specifiche, come quelli sull’employer branding e social recruiting – che in Italia erano ancora poco conosciuti – uniti ai corsi più vicini al mondo HR, come la scuola di coaching.
Nel frattempo, il mio interesse per i social media cresceva sempre più, e mi stupiva vedere il forte impatto che queste piattaforme avevano nella vita delle persone. E così, questa mia apparente confusione si è trasformata in una professione, che ha messo insieme le diverse esperienze: oggi faccio consulenza in ambito risorse umane con un linguaggio attuale e anche innovativo, il linguaggio tecnologico, con una forte attenzione alla comunicazione come abilitatore di ogni relazione, processo e cambiamento».
Se dovessi parlare di cambiamento ai ragazzi, cosa diresti? Qual è il bello di affrontare un cambiamento e quali sono le sfide?
Nel mio caso, il cambiamento è stato ed è forse la mia unica costante. Credo davvero nel potere costruttivo del cambiamento, tanto che in uno dei miei post più recenti su LinkedIn ho scritto, quasi in modo provocatorio, una sorta di “ode al cambiamento”, riprendendo il celebre pezzo di Einstein che ci aiuta a riflettere sull’importanza della crisi e di come sia rigenerante e faccia scoprire tanti lati anche positivi di noi, permettendo di reinventarci.
Credo sia importante avere la capacità di rimettersi in gioco, capacità che può servire sia per scelta personale sia per costrizione derivante da variabili in costante cambiamento. E penso sia utile ricordarci che queste crisi portano spesso anche ad avere delle opportunità migliori ed è bene che vengano non soltanto dallo scenario, ma anche da sé stessi per provare a fare quel passo diverso e/o in più.
Riconosco che il mio percorso professionale è stato tutt’altro che lineare, durante la mia carriera ho alternato e vissuto tanti cambiamenti. Sono passata dal lavorare in un’azienda a una società di consulenza fino ad arrivare a scegliere, poi, la libera professione. Ma il cambiamento di cui parlo riguarda anche i progetti che ho portato avanti negli anni, che sono stati tanti e molto diversi tra loro e che mi hanno permesso di acquisire un mix di competenze assolutamente indispensabili per giocare su più ruoli e spendermi su più fronti. A mio avviso, come anticipato, il “saper cambiare” è una competenza da allenare perché non è un’attitudine naturale ed è sempre difficile».
“Chi ha spostato il mio formaggio”
Valentina Marini, durante la chiacchierata ci ha anche consigliato un libro – “Chi ha spostato il mio formaggio” – che dal suo punto di vista aiuta molto a ragionare e a capire come la vita sia sempre fatta di cambiamenti e a riflettere sugli approcci con cui affrontarlo. «Credo che questo libro vada bene per tutti, anche per i più giovani. Se potessi lo inserirei come manuale obbligatorio all’università proprio perché oggi come non mai sta cambiando il modo di avvicinarsi al lavoro».
Che cosa vuol dire essere capo di sé stessi?
«Essere capo di sé stessi dà la possibilità di scegliere i progetti, i team e le organizzazioni per le quali lavorare, oltre alla città in cui vivere e la libertà di gestire i propri tempi e le giornate come meglio si crede. Ma attenzione, lotto da anni contro chi reputa il libero professionista una persona libera al 100%. Il libero professionista è artefice del proprio fatturato (oltre che del proprio futuro).
Essere capo di sé stessi vuol dire avere più “cappelli” e vuol dire dover anche avere la capacità di saper vendere, di saper sviluppare progetti, di gestire la parte amministrativa e tanto altro ancora. Si hanno tanti ruoli e bisogna avere delle capacità di organizzazione del lavoro spiccate, oltre ad essere in grado di parlare il linguaggio fiscale e di seguire la normativa. Non credo si possa nascere capi di sé stessi, perché a mio avviso per vivere la libera professione serenamente c’è bisogno di esperienza, di una rete ben sviluppata e competenze molto solide, oltre che capacità di raccontarsi e saper fare molto personal branding».
Hai anche scritto la prefazione di “Trova la tua strada”: ad oggi, pensi di aver trovato la tua strada?
«Posso dire di aver trovato la mia strada del momento. Io credo nelle strade giuste rispetto al nostro momento di vita e credo (e stimo) tutte le persone che si mettono tanto in discussione per trovare la loro strada verso il successo (e per successo intendo fare in modo di fare accadere quelle cose che si desiderano). Ho cambiato più strade, e so che in futuro alcune situazioni potrebbero evolvere e per questo potrei modificare (ancora) il mio percorso.
Questo non vuol dire che io non abbia le idee chiare, vuol dire valutare costantemente quali sono i miei bisogni e quali sono i miei obiettivi. Io non credo a “Itaca” come posto in cui arrivare, credo a “Itaca” come un viaggio e quindi credo che la mia “Itaca” possa essere diversa, cambiare forma, man mano che vado avanti. Credo infine che ogni strada porta a quella successiva, che sarà bella come ogni passo fatto con ambizione».